Gli Alpini l’amor patrio e la vittoria - Marcello Veneziani

“Sul cappello, sul cappello che noi portiamo c’è una lunga penna nera” a riascoltarlo con le orecchie della memoria, ti sembra un coro antico di fantasmi venuto da tempi e spazi remoti. L’età del mulo, della natura aspra, dei soldati che combattono contro il freddo, i precipizi e le salite prima che contro il nemico.
Il IV novembre sembra risalire ai tempi degli antichi romani come i numeri che lo fissano nella memoria incerta. Ma se pensi alla prima guerra mondiale, pensi soprattutto a loro, agli alpini. Fu la loro guerra, a chilometro zero. Li pensi al passato con le facce, i modi e i vestiti di oltre cent’anni fa; poi ti capita di vederli sfilare anche oggi, non sono gli stessi, ma un po’ ti rincuora. Una volta li incrociai in un raduno a Bassano del Grappa, sul ponte famoso e mi sembrò di tornare indietro; erano allegri, camerateschi se posso dire.
Tu che li immaginavi appartenenti a una gloriosa ma irripetibile preistoria, al più riaffiorante in qualche pagina di letteratura, da Dino Buzzati a Eugenio Corti a Rigoni Stern, e invece ritornano e per un attimo accendono la spenta stagione del nostro presente. Non appartengo alla razza Piave, vengo dal sud, dal mare e dalla pace disarmata degli ultimi decenni, e mi colpisce il provocatorio anacronismo delle penne nere, la loro inattuale attualità. Il riassunto di due guerre mondiali sfila nei titoli di coda di questa fine della storia: l’Adamello, il Carso e la Vittoria e poi il Don, la steppa e tanta neve. E infine l’Afghanistan di qualche anno fa, dove i soldati del ’15-18 andarono ad affrontare i talebani del terzo millennio ma lo stridente contrasto è solo apparente: a volte si torna a combattere corpo a corpo, territorio su territorio, ritornare all’epoca delle trincee e della conquista metro su metro.
Gli alpini sono per definizione i ragazzi del Novantanove, una data che un tempo indicava l’ultima leva nata nell’ottocento, ma che oggi indica l’ultimo avamposto simbolico del passato, perché il 99 è numero finale per eccellenza, l’orlo estremo del passato che si sporge sul balcone del presente. Conobbi alpini reduci dalla campagna di Russia, dove furono decimati e i superstiti portavano i segni di quell’inferno di ghiaccio. Conobbi alpini di pace; uno di questi, brav’uomo nonostante la politica e il sindacato, era Franco Marini, alpino marsicano, come l’orso e il lupo, e lo ricordava sempre, con mite orgoglio.
Ma cosa resta oggi 4 novembre del 2021 dell’amor patrio, a parte le occasioni sportive? Resta un ricordo stinto, come le bandiere tricolori che stancamente sbiadiscono nei luoghi pubblici. Resta l’Altare della Patria coi presidenti in pellegrinaggio rituale, restano le scie labili lasciate in cielo dalle Frecce Tricolori. E degli alpini oggi resta come immagine pubblica il generale Figliuolo, alpino lucano, alle prese non con le trincee e i passi di montagna ma i vaccini e i green pass.
Nessuno pensa di rianimare l’amor patrio sulla punta delle baionette, del revanscismo o della retorica militare gonfia di passato. Quel tempo è finito, ed è un bene che l’amor patrio oggi non sia associato ai cannoni e alla morte. Però è un male dimenticare la storia da cui proveniamo, che è fatta anche di quello. Non un ricordo contro, per oltraggiare i nemici di ieri; ma una memoria per ricordare come nacque e a che prezzo, l’unità d’Italia, come fu difesa e da chi, contro quali valorosi e rispettabili avversari.
Vittorio G. Rossi, scrittore e patriota, raccontò quando lui entrò da soldato in Trento e in Trieste; credeva di andare a liberare le terre irredente dal barbaro invasore e invece trovò civilissime città che degnamente vivevano all’ombra di un civilissimo Impero, seppur declinante. La memoria della Vittoria non è la memoria della sconfitta del “Barbaro Impero” (ad avercelo ancora…) ma è in positivo il doloroso ma necessario passaggio per l’Italia unita. A chi ricorda le angherie nazionalfasciste ai danni dei sudtirolesi, ricordo se il sud Tirolo fosse rimasto con l’Austria avrebbe fatto la stessa fine dell’altro Tirolo, annesso alla Germania di Hitler. E se fosse finito con la sorella Ungheria sotto le grinfie di Stalin, poi…
Nessuno oggi si sogna di chiedere a Bolzano di rimuovere la ricca toponomastica che ricorda gli eroi sudtirolesi e austriaci, compresi coloro che combatterono contro gli italiani; perché dovremmo cancellare i nostri eroi, i Cesare Battisti e il ricordo della Vittoria? Ci sono due modi per pacificarsi: uno è cancellare il passato, dimenticare, ma in quel caso bisognerebbe non solo sostituire piazza della Vittoria con piazza della pace ma anche, per dire, via Andreas Hofer con via della Colomba. Ma questa via fondata sull’amnesia bilaterale è mortificante per entrambi le comunità e per la storia. Meglio ricordare ambedue le memorie, onorare il passato delle rispettive comunità, fermo restando che siamo in Italia, nonostante l’autonomia di gestione (che non può essere autonomia come sovranità nazionale). Non usate la spugna per cancellare il passato; anche doloroso, il passato ci appartiene, è la nostra origine. Anche quando narra di sconfitte, come El Alamein. Siamo per la pace, nessuno rivorrebbe la guerra a chicchessia, però non cancelliamo la memoria nazionale.
Al di là degli anniversari e delle piazze, l’amor patrio non va pensato contro l’amor patrio altrui, ma in sintonia con esso, rispettandosi reciprocamente. L’amor patrio non solo è compatibile coi patriottismi altrui e con l’Europa unita ma ne è la base insostituibile, per dar corpo e anima a un’Europa dei popoli e delle patrie. Come ci ricordano gli alpini, la pace e la libertà, come la patria e la civiltà, non sono gratis ma hanno un prezzo alto e duro, come le montagne e i muli. Il passato non si cancella, ma ritorna in punta di penna, sul cappello.
Marcello Veneziani, La Verità (4 novembre 2021)

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